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"L'epoca moderna ha fatto il suo tempo. L'indole stereotipata dei gesti, degli atti, delle menzogne dell'Europa sta a dimostrare che il tempo del disgusto si è concluso. Spetta ai Mongoli ora accamparsi sulle nostre piazze". Così recita un Manifesto surrealista del 1925, e su questa profezia si basa "La Papessa del diavolo", pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1931. È la storia apocalittica e divertita, ma non per questo meno inquietante, della fine della civiltà per mano di un'Arcimaga babilonese e, alle sue spalle, dell'Arcangelo Nero che ordisce la fine dei tempi. Tra torture e massacri, erotismo saffico e humor nero si dipana un delirio estremamente metodico, un'orgia iconoclasta che mescola il triviale con il poetico, sotto il segno della distruzione totale. L'origine stessa di questo romanzo di magia, amore e morte è ancora avvolta nel mistero. La vera identità di Jehan Sylvius e Pierre de Ruynes, infatti, resta incerta. A lungo si è attribuito il libro alla collaborazione tra il poeta Robert Desnos, uno dei fondatori del Surrealismo ed Ernest Gengenbach, singolare figura di ex-seminarista studioso del demoniaco, ma le rivelazioni che si sono succedute dal dopoguerra a oggi continuano a confondere le acque. Ed è forse giusto così per un romanzo che, nel suo febbrile intreccio di sacro e di blasfemo, nella sua irrisione della morale e della cultura, sembra contenere l'essenza stessa del Surrealismo.